I casi clinici pubblicati su JBMR Plus nel 2020 descrivono due donne con una frattura ossea erroneamente diagnosticata che sono state trattate con zoledronato. Nel corso dell’anno successivo, hanno subito un marcato deterioramento clinico e radiografico della malattia scheletrica. Ad entrambi è stata infine diagnosticata un’osteomalacia ipofosfatemica secondaria alla sindrome di Fanconi acquisita (causata dal mieloma a catene leggere in un caso e dal trattamento con tenofovir nell’altro). È stato istituito un trattamento appropriato con integrazione di fosfato con miglioramento clinico. Questi casi illustrano l’importanza di non trascurare l’osteomalacia negli adulti che presentano fratture e gli effetti potenzialmente dannosi del trattamento con inibitori a lunga durata d’azione del riassorbimento osseo in queste circostanze.
Il commento
Abbiamo chiesto a Francesco Orsini, specialista in reumatologia presso la SC di Reumatologia dell’IRCCS Ospedale Galeazzi Sant’Ambrogio di Milano e l’UOC Osteoporosi e malattie metaboliche dello scheletro dell’ASST Pini-CTO di Milano, di commentare il caso.
«Entrambi i casi – dice Orsini – descrivono due pazienti, rispettivamente di 50 e 61 anni, con fratture da insufficienza dovute a un quadro di osteomalacia ipofosfatemica secondaria a Sindrome di Fanconi, una rara tubulopatia che colpisce il tubulo contorto prossimale. Sia nel primo che nel secondo caso la somministrazione di acido zoledronico, dovuta all’errato inquadramento diagnostico del paziente, ha portato ad un drastico peggioramento del quadro clinico con la comparsa di ulteriori fratture da insufficienza.
Nello specifico, nel paziente A, le fratture da insufficienza a livello del bacino e della regione sottotrocanterica del femore destro erano state erroneamente attribuite a metastasi ossee, in base alla pregressa diagnosi di carcinoma mammario risalente a quattro anni prima; mentre nel paziente B, le fratture costali multiple, comparse in assenza di eventi traumatici significativi, erano state inquadrate come manifestazione di un’osteoporosi fratturativa. In entrambi i casi, la somministrazione di acido zoledronico ha causato un netto peggioramento del quadro scheletrico, con la comparsa di nuove fratture patologiche, in particolare a livello della regione diafisaria del femore, oltre a fratture a livello delle coste, dei metatarsi e del bacino. Questo ha configurato un quadro clinico sostanzialmente analogo a quello delle “fratture atipiche”, che rappresentano uno dei più rari e temuti effetti collaterali dei farmaci ad azione antiriassorbitiva, quando somministrati per lunghi periodi».
«Le fratture atipiche del femore (AFF) – continua lo specialista – sono così definite poiché si manifestano nella porzione sottotrocanterica del femore, a differenza delle fratture da fragilità che coinvolgono prevalentemente il collo del femore o la regione inter/pertrocanterica. Da un punto di vista patogenetico, la terapia protratta con farmaci ad attività antiriassorbitiva comporta una netta riduzione del rimodellamento osseo, con conseguente diminuzione della capacità dell’osso di riparare i microdanni strutturali dovuti alle sollecitazioni meccaniche ripetute. Quando il tasso di formazione dei micro danni ossei supera la capacità riparativa del tessuto, possono verificarsi fratture da insufficienza nelle aree di maggior carico meccanico. Allo stesso modo, l’inadeguata mineralizzazione tipica dell’osteomalacia riduce la resistenza meccanica dell’osso, portando spesso a fratture da insufficienza a livello della diafisi di femore e tibia, dei metatarsi, delle coste e del bacino.
Pertanto la somministrazione di una terapia antiriassorbitiva in una condizione di osteomalacia comporta un drastico peggioramento del quadro clinico, con la possibile comparsa di fratture da insufficienza, non di rado a livello della diafisi femorali, come documentato in questi due casi presenti in letteratura».
«Risulta quindi fondamentale – conclude Orsini – per il corretto inquadramento del paziente con fratture da fragilità o da insufficienza, eseguire degli esami di laboratorio che vadano ad escludere una sottostante osteomalacia, prima di impostare un trattamento con bisfosfonati o denosumab. Tra gli esami da includere, come raccomandato dalle linee guida SIOMMMS, è indicato il dosaggio del fosforo sierico, la cui riduzione può essere indicativa di una osteomalacia ipofosfatemica, come avviene, ad esempio, nella Sindrome di Fanconi».