Perché parlare di cambi di paradigma?
Perché nel mondo della ricerca, dopo aver perseguito teorie e percorsi molto battuti e ottenuto i risultati che tali costrutti teorici permettevano, se il problema rimane non risolto, occorre cambiare punto di vista, interpretazione e bersagli per fare degli avanzamenti. Non serve negare quanto fatto fino a quel momento, ma i dati vanno rivisitati alla luce delle nuove conoscenze e degli aspetti rimasti non spiegati.
Le recenti acquisizioni e gli sviluppi delle metodologie di indagine biologica suggeriscono come sia il momento di guardare alla malattia di Alzheimer (e più in generale alle demenze) in un modo nuovo.
Un modo nuovo di affrontare le demenze
Se si pensa al passato in modo critico, è frustrante registrare che dal 2003 fino al 2021 non siano stati registrati nuovi farmaci per il trattamento della malattia di Alzheimer e che gli studi sul ruolo delle proteine beta amiloide e Tau a partire dalla metà degli anni ’80 abbiano portato alla autorizzazione di due anticorpi monoclonali anti-amiloide, concettualmente nuovi rispetto ai farmaci esistenti, ma con risultati clinici per ora limitati (si veda la bella analisi di Nicola Vanacore dell’ISS: La distanza dei trial dalla terapia dell’Alzheimer).
È un esito modesto se si considera che il paradigma seguito era quello di colpire alla radice una delle cause della malattia, ovvero l’accumulo di beta amiloide. Si faccia attenzione, non si tratta di negare completamente questo ruolo, ma di capire meglio in quale contesto ha luogo. Per esempio, sono stati prodotti dati nuovi sul rapporto tra beta amiloide e proteina Tau grazie ai nuovi marcatori PET per Tau (Landau SM, et al. Tau Pathology Without Aβ—A Limited PART of Clinical Progression.)
Che cosa si ricava in estrema sintesi dai nuovi dati?
Si osserva che, valutando contestualmente l’accumulo di beta amiloide e quello di Tau, vi sono alcuni pazienti che accumulano entrambe le proteine, altri che invece accumulano solo Tau ma non beta amiloide. Altri ancora che al momento dell’osservazione presentano un solo accumulo di amiloide.
La possibilità di eseguire analisi longitudinali ha permesso di capire che solo quei pazienti che presentano accumulo di amiloide e poi di Tau appartengono al gruppo a cui può essere diagnosticata la malattia di Alzheimer, mentre quelli che accumulano solo proteina Tau possono andare incontro a compromissione cognitiva, ma di grado meno severo e non evolvono verso la malattia di Alzheimer. Queste osservazioni hanno una serie di ricadute sia per la possibilità di distinguere sottogruppi di pazienti, sia per i trattamenti e le strategie preventive. Si capisce, per esempio, l’importanza della detezione precoce dei pazienti che hanno accumulo di amiloide anche ai fini dell’uso dei nuovi farmaci anti-amiloide che potrebbero essere utili in sottogruppi di pazienti ben caratterizzati dal punto di vista molecolare.
Inoltre, viene richiamata l’importanza di capire quali siano i determinanti indipendenti dell’accumulo delle due proteine e i meccanismi e l’esatta scansione temporale dell’effetto congiunto. Si ricorda che la sola deposizione di alcune specifiche componenti delle proteine Tau (di cui esistono diverse specie), non accompagnata da beta amiloide, può dare origine a malattie neurodegenerative diverse dalla malattia di Alzheimer, dato che rivela un ulteriore livello di complessità.
Degni di nota anche gli studi che hanno rivalutato il ruolo della componente vascolare della malattia di Alzheimer e suggeriscono la presenza di un’alterata regolazione di unità neurovascolari, come indicato dalle modificazioni di gruppi di geni coespressi a livello di vasi, glia e neuroni analizzati mediante analisi trascrittomica a livello di singolo nucleo, una nuova potente metodologia di indagine (Sun et al., Single-nucleus multiregion transcriptomic analysis of brain vasculature in Alzheimer’s disease). In questo contesto si inseriscono anche le indagini sui sistemi di “gestione dei rifiuti” a livello cerebrale, in particolare sul sistema glinfatico di trasporto dei fluidi attraverso gli spazi perivascolari. A questo processo partecipano diversi elementi cellulari, tra cui gli astrociti le cui estroflessioni interessano arterie, capillari e vene. Tale sistema permette il passaggio regolato (attraverso acquaporine) di fluidi e prodotti di scarto verso gli spazi subaracnoidei. L’attività del sistema glinfatico presenta oscillazioni nel corso della giornata e, in particolare, è attivo durante alcune fasi del sonno e non durante la veglia. È stato dimostrato che tale attività è alterata nelle malattie degenerative, tra cui la malattia di Alzheimer (Hsu JL et al., Magnetic Resonance Images Implicate That Glymphatic Alterations Mediate Cognitive Dysfunction in Alzheimer Disease).
L’importanza dei ritmi circadiani
Queste osservazioni non solo focalizzano l’attenzione su sistemi di clearance cerebrali di proteine, il cui accumulo è ritenuto importante nelle malattie neurodegenerative, ma sottolineano l’importanza dei ritmi circadiani, degli orologi biologici che li controllano e della loro sensibilità allo stato di salute dell’organismo. Da notare che anche condizioni che interessano organi periferici (per esempio il tratto gastrointestinale) possono disorganizzare tali ritmi e, in ultima analisi, funzioni importanti a livello encefalico. Queste osservazioni, insieme all’analisi dei progetti di ricerca presentati in vari contesti, sottolineano il cambio di passo e la nascita di nuove prospettive nelle ricerche sulle malattie degenerative associate a demenza.
Una responsabilità condivisa tra politica e ricerca
Da sottolineare, infine, che non solo la ricerca biomolecolare si è evoluta nel modo accennato, ma anche la parte che riguarda lo stile di vita e la “care” dei pazienti hanno fatto progressi e mutato paradigmi. I dati sullo stile di vita e lo stato di salute si sono molto arricchiti di conferme che mostrano come il vivere adeguatamente (anche dal punto di vista socioeconomico oltre che stare attenti ad alimentazione e attività fisica) sia protettivo contro lo sviluppo e la velocità di progressione dei disturbi cognitivi, osservazione che richiama a responsabilità politiche, oltre che di ricerca. Anche in termini di organizzazione sanitaria e di formazione di chi, professionalmente o perché familiare, si occupa di persone anziane con disturbi cognitivi si sono stabiliti nuovi quadri di riferimento ed è stato sottolineato che l’ambito della “care” ha fatto progressi in termini di metodologie, formazione, esiti che hanno migliorato la qualità dell’assistenza e la qualità di vita dei pazienti affetti da disturbi cognitivi, un miglioramento che non può essere ignorato dai sistemi sanitari (Reuben DB et al., The Other Dementia Breakthrough—Comprehensive Dementia Care).
L’emergere di nuovi paradigmi, di metodologie e di interpretazione, delinea dunque un quadro complessivamente in rapida evoluzione che richiama l’importanza in ambito biomedico e sanitario dell’innovazione e cooperazione tra discipline diverse e che crea, razionalmente, la cornice per il raggiungimento di soluzioni da lungo attese.