Lecanemab è un anticorpo monoclonale umanizzato dell’immunoglobulina gamma 1 che lega selettivamente ed elimina le protofibrille di beta-amiloide (Aβ). Quest’ultima è una proteina tossica per il cervello ed è da tempo stata identificata come uno dei marker per la progressione di demenza dell’Alzheimer.
La richiesta di autorizzazione all’immissione in commercio per questo farmaco è stata approvata a gennaio 2023 dalla Food and Drug Administration americana, con una procedura fuori dal comune non esente da numerose critiche; è arrivata invece a luglio di quest’anno l’approvazione definitiva basata sui trial clinici convenzionali richiesti.
Lecanemab, anche noto col nome commerciale di Leqembi, è stato sviluppato dalle aziende Eisai di Tokyo e Biogen di Cambridge per trattare la malattia di Alzheimer precoce con patologia amiloide confermata.
Un’approvazione discussa
Se infatti il farmaco è stato inizialmente approvato solo per pazienti con decadimento cognitivo o demenza lievi, in quanto questa è stata la popolazione degli studi clinici che hanno ottenuto risultati altamente significativi dal punto di vista statistico, con il nuovo via libera di FDA il farmaco potrà essere somministrato ad un ampio spettro di popolazione.
L’autorizzazione emessa dall’FDA a gennaio scorso è stata concessa secondo la procedura accelerata, riservata alle patologie con poche terapie disponibili. Questo significa che per l’autorizzazione, l’ente americano si è basato sui dati provenienti dagli studi di fase II e non di fase III come di consueto. Lo studio di fase II è stato condotto su 856 pazienti. Dopo 79 settimane, i soggetti appartenenti al gruppo del trattamento hanno registrato una riduzione statisticamente significativa della placca di beta-amiloide nel cervello rispetto al gruppo di controllo. Il trial però non ha valutato se la somministrazione del farmaco abbia influito sulle capacità cognitive ed è stato approvato, quindi, solo per l’idoneità alla riduzione delle placche amiloidi. Questo dovrebbe ragionevolmente portare a un beneficio clinico per i pazienti, ma i soli risultati disponibili non ne danno certezza.
Molti scienziati sono rimasti sorpresi dalla decisione dell’FDA, specialmente perché la stessa agenzia in precedenza aveva autorizzato l’approvazione accelerata di un altro farmaco anti-Alzheimer, l’aducanumab, il quale ha causato numerosi problemi che si sono conclusi con il ritiro della domanda per l’AIC.
Per cercare di rasserenare il pubblico, come requisito post-marketing dell’approvazione accelerata, la FDA ha chiesto quindi alle aziende di condurre una sperimentazione per verificare il beneficio clinico previsto di Lecanemab e lo scorso novembre sono stati pubblicati i risultati dello studio di conferma di fase III.
Quest’ultimo prende il nome di Studio 301 Clarity AD ed è un trial clinico multicentrico, randomizzato, in doppio-cieco, a gruppi paralleli che ha arruolato 1795 pazienti affetti da malattia di Alzheimer, sempre con decadimento cognitivo lieve e presenza confermata delle placche di beta-amiloide.
Rischi e benefici
Il Clarity AD ha rilevato che l’anticorpo ha comportato il rallentamento del declino cognitivo del 27% in 18 mesi di trattamento. Ciò conferma la previsione che il farmaco possa essere utilizzato per limitare la progressione della malattia.
Nonostante l’apporto benefico della terapia, sono da tenere in conto alcuni effetti collaterali e la tossicità che sono stati rilevati e che non sono assolutamente trascurabili, quali ad esempio l’accumulo di liquidi a livello cerebrale, emorragie cerebrali e edema.
Inoltre, il farmaco potrebbe comportare delle anomalie dell’imaging correlate all’amiloide, dette ARIA. Si sospetta infatti che l’anticorpo possa indebolire i vasi sanguigni del cervello per attaccare le placche amiloidi, con conseguenti emorragie e gonfiori temporanei. Alcuni ricercatori pensano che siano state proprio queste complicazioni a causare tre morti tra gli arruolati nello studio di fase III. Tuttavia, Eisai ha dichiarato che è inappropriato trarre conclusioni sulla base dei singoli casi, pur segnalando i decessi alla FDA come richiesto.
In seguito a questi avvenimenti, l’FDA ha chiesto alle aziende produttrici di inserire l’avvertimento che Leqembi potrebbe causare gonfiore ed emorragia cerebrale e richiede ai medici di monitorare la condizione, che secondo l’agenzia è raramente grave o pericolosa per la vita.
Silvia De Francia, professoressa di farmacologia all’Università di Torino, affronta il discorso del rapporto rischio-beneficio. “Si è visto che Lecanemab è in grado non tanto di curare la malattia, quanto di rallentare l’avanzamento del declino cognitivo ma in modo non clinicamente significativo al momento. L’avanzamento della ricerca, anche se in questo momento non sta facendo la differenza in termini di qualità di vita per i pazienti affetti da patologia di Alzheimer, potrà consentire ulteriori passi avanti nel trattamento della patologia”.
Attualmente non si conosce la forma sotto la quale si presenta il beneficio e l’effetto che esso potrà avere sulla vita dei pazienti. Eric Reiman, direttore esecutivo del Banner Alzheimer’s Institute, afferma: “Questo potrebbe significare sei mesi in più per riconoscere una persona cara o per svolgere un’attività fondamentale, ma saranno necessari ulteriori studi”.
Il punto infatti è proprio questo: non si possono ancora dare speranze certe ai pazienti e ai loro familiari, perché è necessario ancora approfondire la ricerca per questo anticorpo.
La professoressa De Francia, inoltre, sottolinea che l’Alzheimer è una patologia di genere, che colpisce soprattutto le donne. Questo aspetto – afferma – è stato considerato nell’arruolamento degli studi, ma l’interpretazione dei dati è carente dal punto di vista della disaggregazione per sesso e genere.
Le donne sono più esposte ad un declino cognitivo perché sono soggette per molto tempo della loro vita all’azione degli estrogeni per poi venirne private andando incontro alla menopausa che può essere spesso precoce.
È necessario determinare l’efficacia e la sicurezza del farmaco in base al sesso e al genere, sfruttando tutti gli elementi predittivi che la ricerca ci ha fornito in questi anni.
In conclusione, possiamo dire che l’approvazione del secondo trattamento della storia per la malattia di Alzheimer è sicuramente un enorme passo avanti per la ricerca e per la battaglia contro la malattia. Tuttavia, non bisogna farsi prendere dall’entusiasmo del beneficio, ma impiegare tutte le risorse disponibili per far fronte alle numerose criticità ancora presenti.